lunedì 12 luglio 2021

Cecità (Josè Saramago) recLauAlb

Salotto in Biblioteca del 25/06/2021

«Cecità» di Josè Saramago


Cecità di Josè Saramago


Commento di Laura Albino

Una grande epidemia senza precedenti, colpisce un paese non identificato, tutti gli abitanti uno dopo l'altro si ritrovano con la perdita della vista, il mondo intorno a loro improvvisamente sparisce e, non avendo più punti di riferimento cadono in preda al panico senza che alcuni di essi abbia contezza dell'origine del male e della sua fulminea e progressiva espansione. Per una infezione di tale portata, l'unica profilassi da adottare da parte del Ministero della Sanità, è quella di mettere in quarantena tutta la gente contagiata. 
Una narrazione molto simile per la sua tragicità alla vicenda pandemica in cui la nostra popolazione mondiale è stata coinvolta in questi nostri giorni per la diffusione del Covid 19, un virus che sta sottraendo alla vita più persone senza alcuna distinzione di età, e mettendo ognuno di noi nella condizione spaventosa di combattere un nemico invisibile. La pandemia, nata dalla penna dello scrittore in forma pseudo-fantascientifica è di natura ben diversa in quanto ogni individuo colpito, viene privato della facoltà di vedere, gli viene sottratta quindi da un organo di senso vitale la luce degli occhi, una grande perdita simile al morire. I grandi disagi che nascono nei non vedenti sarebbero indicibili, perchè da una condizione di essere, di esistere, di occupare un posto nel mondo, di viverlo in tutta la sua pienezza, sono passati ad affrontare una realtà fatta di grandi sofferenze, di isolamento, di discriminazione sociale; ora sono uomini condannati a vivere nel nulla, nei loro occhi permane un bianco latte così intenso che li confonde e disorienta. Per poter agire, ora devono far leva essenzialmente sulla memoria, su tutte quelle risorse personali che richiamano le esperienze pregresse e ricostruire tra mille inciampi e difficoltà un nuovo mondo secondo la propria immaginazione. Il tempo e lo spazio sono diventati per loro inesistenti, la loro vita è radicalmente cambiata, sono entrati a far parte del mondo dei diversi, degli esclusi, dei cosiddetti anormali, e per poter comunicare devono acuire l'udito ed usare solo la parola verbale, ormai la gestualità e tanto meno le espressioni facciali non fanno più parte del loro esistere. 
Divenuti per la società gente in disuso, vengono relegati in una vecchia struttura abbandonata, una volta adibita a manicomio, un luogo che in tutto il suo grigiore, li tiene prigionieri senza alcuna assistenza sanitaria, senza alcun servizio di prima necessità, un luogo non luogo privo di ogni forma di aiuto. In esso vigono soltanto regole molto restrittive e dure da rispettare che non fanno altro che aumentare le ansie dei rinchiusi. Quell'ambiente, divenuto luogo dell'attesa e dell'incognita, fa di loro anime vaganti che si aggirano come fantasmi procurando in ogni movimento danni fisici a se stessi ed agli altri. 
Pur vivendo in comunità, nessuno chiama l'altro per nome, cercano di riconoscersi dal tono della voce, dal modo di esprimersi, una realtà molto precaria ed insostenibile dalla quale sembra non esserci alcuna via d'uscita. Hanno smarrito i propri familiari, parenti ed amici, hanno abbandonato gli oggetti personali, non hanno più nessuno accanto a cui poter fare riferimento, sono stati rinchiusi come un branco di bestie destinate ad una morte esistenziale, anche i sentimenti più veri e più belli nei confronti dei propri cari vanno svanendo. Con il passare dei giorni, presi sempre più dall'angoscia e dal dolore, in ognuno va crescendo ed emergendo la parte peggiore di se', una forza maggiore li spinge ad agire secondo i più bassi istinti che loro malgrado non riescono più a dominare. Persone di ogni età e sesso si azzuffano per impossessarsi di una misera razione di cibo, per uno straccio da indossare, per appropriarsi di un posto dove poter riposare. La precarietà in cui sono caduti, invece di presentarsi come occasione privilegiata per usare la propria logica, la personale ragionevolezza, e trovare condivisione nella stessa misera condizione, li rende ancora più egoisti e prepotenti nei confronti degli altri. Quel luogo un tempo destinato ad un vivere dolente, continua ad essere teatro di violenze e vessazioni sulle donne, vige la legge del più forte che li induce a compiere azioni spregevoli mettendo in atto la natura più brutale dell'essere. 
Ma, ci sarebbe da chiedere se per caso quegli uomini quando avevano tutte le facoltà per agire in tutta la loro autonomia abbiano avuto comportamenti diversi nei confronti dei propri simili, oppure hanno sempre perpetuato nella loro malvagità? Hanno mai prestato aiuto ai propri fratelli, hanno mai guardato negli occhi dei propri simili quando avevano occhi per vedere o si sono limitati a curare il proprio orticello. Anche ora permangono in quella cecità bianca come il latte che è scesa dal cielo come una manna in tutta la sua bellezza non riconoscono quel balsamo quale opportunità speciale per poter guarire le loro anime. Quel bianco come il latte è un richiamo alla rinascita, quella nuova condizione di vita è un invito a guardare il mondo e le cose con gli occhi dell'anima, perchè quegli uomini anche quando avevano il dono della vista non sono mai stati in grado di fermare lo sguardo su ogni cosa e attribuire ad essi il giusto valore: «È una vecchia abitudine dell'umanità passare accanto ai morti e non vederli». Cosa ricordava di quei quadri quel vecchio con l'occhio bendato dopo aver visitato una galleria d'arte? Tutto e niente, descriveva un dipinto dove faceva confluire in un unico insieme gli elementi costitutivi de «Il campo di grano» di Van Gogh, de «Il carro di fieno» di John Constable, de «La nascita di Venere» del Botticelli, «L'ultima cena”» di Leonardo e «Il quarto Stato» di Giuseppe Pellizza confondendo e mescolando il sacro con il profano. Ma chi possiede occhi deve avere la capacità di osservare perchè la differenza con il vedere è sostanziale. Se vogliamo sentirci vivi, dobbiamo umanizzare il nostro vivere che giorno dopo giorno cade sempre più nel vortice dell'indifferenza, dell'egoismo e della crudeltà, dobbiamo cambiare rotta se non vogliamo essere indotti alla cecità perenne che è simile alla fase conclusiva della vita: la morte dell'anima è peggiore della morte corporale. 
Leggendo l'intera vicenda di Cecità, non si può rimanere ciechi difronte al ruolo dell'unica vedente, che pur essendo dotata della vista si sente precipitare giorno dopo giorno nelle tenebre, «io che vedo, non posso continuare a vivere fingendo di non vedere», l'indifferenza è un sentimento che non le appartiene, ora deve volgere lo sguardo verso quella grande luce che illumina la strada maestra, non può continuare ad ignorare i bisogni di quei fratelli caduti in disgrazia, il suo non è un amore generalizzato che li abbraccia nel loro insieme, lei ama ognuno nella propria specificità, si rende loro disponibile e servile secondo le loro personali esigenze adattandosi ai loro umori, alla loro sensibilità, alla loro mentalità, per poter restituire ad ognuno la propria identità perduta.
La vera protagonista dell'intera vicenda quindi non è la pandemia della cecità che investe l'umanità, ma è il ruolo sublime dell'eroina giustiziera, della samaritana che indossato il grembiule del servizio cristiano, ha sopperito ai bisogni di ognuno, quella singola persona che con il suo sguardo ha saputo guardare molto lontano mettendo in pratica la grande virtù della carità ed il grande capitale di grazia e di amore di cui è portatrice, si è fatta parola viva e concreta di Gesù: ha dato da bere a chi aveva sete, da mangiare a chi aveva fame, ha curato colui che era ferito, ha vestito chi era nudo, ha ospitato in casa chi casa non aveva. Che quella donna non sia stata contagiata dalla pandemia della cecità viene giustificato dal fatto che i suoi occhi hanno sempre recato la vera luce, quella viva che sale dal profondo dell'animo. Il ruolo della vedente, è l'immagine vivente del Cristo Salvatore, un cuore compassionevole, che si crea scrupoli e titubanza al solo pensiero di tralasciare la minima pratica di aiuto a quegli esseri, si piega verso quei miseri abbandonati a se stessi per confortarli e sostenerli nelle loro necessità.
Grande è il messaggio che Saramago ci lascia con il suo scritto: «siamo tutti fratelli e tutti responsabili di questa umanità, soltanto con il sentimento di amore verso l'altro possiamo risorgere, siamo tutti «uomini del sottosuolo» come direbbe Dostoevskij, viviamo in un mondo fatto di disuguaglianze sociali, di ingiustizie, preferiamo rimanere vincolati alla schiavitù dei nostri vizi e delle nostre passioni rifiutandoci di vedere tutte le nefandezze che ammorbano il mondo, siamo tutti dei ciechi ostinati , preferiamo brancolare nel buio come fantasmi immergendoci in un mondo fatto di disuguaglianze sociali, di ingiustizie, perdendo di vista la grande luce. «Cecità», un grande romanzo che in forma allegorica compendia uno dei più grandi insegnamenti cristiani e mette in pratica l'ultimo comandamento che Gesù Cristo ha lasciato all'intera umanità: «Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi». Siamo tutti fratelli e tutti responsabili di questa umanità, soltanto con l'aiuto scambievole, con quei sentimenti di amore verso l'altro possiamo risorgere, certo, la croce sembrerebbe molto pesante, la porta molto stretta per poterci passare, ma sono le uniche vie per rimanere nella luce.
Mi sorprende molto il fatto che il mondo cattolico, quando nel 1998 fu assegnato a Josè Saramago il premio Nobel per la letteratura, non abbia condiviso tale scelta. 
Povero mondo!!! Anch'esso colpito dalla Cecità.