venerdì 30 aprile 2021

Il signore delle mosche (William Golding) recSebAdd

 

Salotto in Biblioteca del 29/04/2021 
«Il signore delle mosche» di William Golding

«La mia quarta di copertina» di Sebastiano Addabbo

Quando è lo stesso autore che ci offre un’esegesi della propria opera, come Golding fa in una conferenza tenuta alla Università della California nel 1962, il lettore – quello più attento –non può non tenerne conto in ogni sua riflessione, non fosse altro che per il reverenziale rispetto che si deve ad un Premio Nobel per la Letteratura; ma è lo stesso Golding che nel concludere il suo commento concede uno spiraglio interpretativo quando afferma: «Una volta pubblicati ,i libri diventano maggiorenni e l’Autore non ha più autorità su di loro.»
Nonostante questa “concessione" resta intatta la necessità di doverci comunque confrontare con le sue analitiche riflessioni.
Incominciamo dal titolo stesso della conferenza : «È compito ingrato raccontare una favola» .
Golding sembra definire la propria opera una favola, confondendo immediatamente il lettore il quale sarà indotto erroneamente ad associare il romanzo ad un genere letterario la cui specificità è un intento consolatorio e moralistico; e ancor peggio, sarebbe assimilarlo al canone fiabesco perché Golding non offre nessuna traccia di intenzione formativa né tantomeno di elevazione morale.
E allora cerchiamo in primis di classificarlo questo romanzo: appartiene alla narrativa psicologica? A quella allegorica? Al romanzo a tesi? Alla letteratura per giovani adulti? Allo scenario letterario distopico?A quest’ultimo senza dubbio ma non certamente assimilabile al generico significato che si tende a dare alla utopia negativa: mondi futuri fantastici con scenari apocalittici ed asfissianti.
Nell’opera di Golding invece siamo difronte alla descrizione, potremmo dire «realistico» - e si potrebbe azzardare un neologismo: romanzo «realdistopico» - di un esperimento di laboratorio letterario inteso a dimostrare il totale fallimento del tentativo del consorzio umano di intraprendere un cammino di convivenza «civile» capace cioè di superare e sconfiggere il male che è invece connaturato inesorabilmente alla natura dell’uomo; quest’ultima è la tesi di Golding che con estrema incisività lui stesso così riassume :«L’uomo produce il male come l’ape produce il miele.»; sembra riecheggiare il grido blasfemo del Satana miltoniano: «Male , sii tu il mio Dio».
La convenzione letteraria utilizzata dall’Autore di identificare il consorzio umano con la storia di un gruppo di bambini e di adolescenti dispersi sopra un’isola, nulla modifica circa la concezione terribilmente pessimistica della natura umana che Golding ha maturato dopo la esperienza della seconda guerra mondiale ed in particolare delle atrocità naziste, rispetto alle quali sostiene con fermezza la inevitabilità del ripetersi in futuro.
La malvagità intrinseca dell’uomo dalla quale l’umanità mai potrà affrancarsi è efficacemente raccontata con maestria letteraria in questo racconto i cui protagonisti sono bambini e ragazzi appena adolescenti; paradigma di modello umano inteso a dimostrare la inutilità di ogni tentativo di liberare l’uomo dall’abbraccio terrificante del male al quale è inesorabilmente condannato.
Nessuna speranza nell’uomo ci concede Golding; forse nei bellissimi brani descrittivi della selvaggia natura dell’Isola sembra riporre un barlume di alba della civiltà nella illusione che almeno la Natura non c’inganni.